Mi chiamo Luciano Potenza e da oltre dieci anni entro in punta di piedi, per poco tempo, nelle vite delle persone che scelgono di promettersi il futuro. Non mi considero un artista né un fotoreporter e nemmeno un ritrattista: la definizione che più mi appartiene è quella di narratore. La mia macchina fotografica è il taccuino su cui annoto gesti, silenzi e bagliori di luce, perché l’amore, come ricorda una grande maestra dell’obbiettivo, si lascia raccontare solo se lo si ascolta con rispetto.

Il mio lavoro comincia molto prima dello scatto. Inizia settimane, a volte mesi prima, nel momento in cui incontro gli sposi per la prima volta. Ascolto la loro storia, i dettagli che li emozionano. Chiedo di mostrarmi le mani con cui si tengono, la canzone che cantano in macchina quando nessuno li vede, il luogo in cui hanno capito di voler trascorrere la loro vita insieme. È così che capisco quali potranno essere le immagini che meritano di restare. Il matrimonio è un evento pubblico, ma l’amore è un fatto privato: il mio compito è proteggere quella delicatezza, trasformandola in memoria tangibile.

La ricerca dei dettagli è la mia bussola. Un velo che vibra nella brezza, un padre che si sistema il nodo della cravatta per dissimulare la commozione, una scarpa abbandonata sotto il tavolo perché qualcuno sta danzando scalzo: in quelle piccole incrinature di scena vive la sincerità di una giornata che, sebbene spesso sfugga, è irripetibile. Non inseguo la perfezione patinata delle riviste; preferisco la verità dei volti. È per questo che faccio sempre un passo indietro: non è timidezza, ma fiducia. Credo che le immagini migliori nascano quando il fotografo diventa invisibile, lasciando spazio alla vita.

Ho imparato molto riascoltando un’intervista della già citata Letizia Battaglia: l’idea di responsabilità nei confronti delle persone ritratte, il senso di gentilezza che trasforma la fotografia in atto di cura è ciò in cui credo e che porto con me durante ogni matrimonio. Quando scatto penso sempre che uno sguardo, un abbraccio, potranno diventare, fra vent’anni, l’eredità emotiva di una famiglia. Per questo lascio spazio all’imprevisto, respiro il tempo degli altri e mi muovo senza pose obbligate: deisdero che le mie fotografie esprimano la realtà.

Alla fine della giornata, quando torno a casa, comincia la parte più silenziosa del mio lavoro. Riguardo ogni fotogramma, seleziono con attenzione, illumino con discrezione. Non aggiungo mai ciò che non c’è, piuttosto non considero ciò che distrae. Il processo di post‑produzione è un atto di rispetto nei confronti della storia che ho raccolto e che desidero raccontare, perché consegnare una raccolta di foto significa restituire, a chi mi ha scelto e dato fiducia, il tempo vissuto, renderlo disponibile per chi non era presente e per chi, un giorno, vorrà ricordare.

Se dovessi riassumere il mio lavoro direi che fotografo ciò che resta quando tutto svanisce. Lo faccio con umiltà, curiosità e un’inesauribile gratitudine verso chi mi consente di essere testimone di quel momento.